02 aprile 2019

I jazzisti e le scale

Affermare d'impatto che i jazzisti sono la rovina della musica moderna così come l'elettronica è il male del nostro tempo, senza dare spiegazioni aggiuntive, significherebbe certamente fare economia del proprio tempo prezioso evitando di sprecarne per argomentare futilmente una affermazione vera. Tuttavia la storia dell'umanità, le circostanze e le buone maniere impongono a questo punto una digressione per chiarire. Si sospenda quindi momentaneamente il giudizio sulla asserzione fatta in principio, e mi si conceda di descrivere, seppur rimanendo sul piano della vaghezza, come sono arrivato alle suddette conclusioni.
Se dovessi davvero raccontare di come mi sono avvicinato al jazz, dovrei prima ricordare tutta la mia vita spiegando come ho iniziato ad ascoltare la musica. Questo sì che andrebbe oltre ogni limite. Basta sapere che ho avuto i primi contatti con questo genere proprio tramite l'ascolto. Non vi ho mai capito molto, devo ammettere.
Per chiarire le cose storicamente, è invece importante premettere che il jazz nasce da una costola del blues. Come il rock, anche se questo è arrivato dopo temporalmente. Insomma si può dire che sono entrambi figli della stessa madre. Degno di nota è pure il fatto che quando si parla di jazz oggi, generalmente ci si riferisce a musiche che a loro volta discendono dal bebop, che sarebbe il jazz diffuso alla fine degli anni 40 del XX secolo, circa. Prima di allora c'era un jazz diverso e bello. Swing.

Merita un breve excursus (di cui poi sarà chiara la necessità) la visione del mondo musicale, oltre che l’opinione sul jazz, data dal Guru della batteria (i suoi video sono ancora disponibili su youtube nel momento in cui scrivo). La teoria del Guru parte da alcuni concetti fondamentali; il primo è il concetto di gente: la gente è costituita dalle persone che non hanno nozioni musicali ma che hanno disponibilità economica e possono pagare i dischi e i biglietti dei concerti. Il secondo concetto è quello di 'ragazzotto'. I ragazzotti sono sempre gente, ma acquisiscono conoscenze musicali (per esempio andando a lezione) e in rari casi divengono musicisti. Il termine non ha un legame con l'età ma con lo stato d'animo della persona e con l'approccio che questa ha di fronte alla musica. Infine vi è il concetto di musica (e quindi di musicista) che viene per ultimo non nel senso inglese di "last but not least" ma proprio perché la musica è all’ultimo posto e non interessa a nessuno. Dopo tutto ciò c'è il Guru (colui che parla nei video; in particolare si riferisce alla batteria ma il concetto può estendersi ad altri strumenti o addirittura alla musica in generale) che si occupa di fare il Virgilio dei musicisti che, presi da tutti i loro impegni, a volte perdono un pochino il contatto con la realtà (musicale e non solo). Già davanti a questa sintesi potremmo gridare al capolavoro.
La formalizzazione teorica della realtà viene quindi estesa ma io non entro ora nel dettaglio, mi muovo direttamente ad un commento sull'opinione del Guru relativa ai jazzisti.
L'idea è che i jazzisti, benché ne abbiano l'evidenza, si ostinano a fare una cosa che alla gente non piace e questo li rende deprecabili. Molto stringatamente il riassunto che credo di poter fare è questo, ma il video merita senz’altro di essere seguito con attenzione dal principio alla fine. Tutto questo ricordo serve per dire che mi allineo alla versione secondo cui il jazz ognuno deve farlo a casa sua. Se non piace alla gente è inutile che si voglia continuare a proporlo lamentandosi e dispiacendosi poi del fatto che di jazz non si campa. Fine della polemica tra me e il sottoscritto.

Nel suo libro sul jazz, Arrigo Polillo dice che il bebop ha condannato il jazz ad una impopolarità da cui non è più riuscito a fuggire. Magari il concetto non è formulato proprio così ma è molto chiaro, e come gli si può dare torto...i fatti confermato tutto. I primi musicisti bebop non facevano altro che vivere all'insegna di una rivoluzione che poi non ha avuto gli esiti sperati. Ecco, fin qui non c'è nessun problema. Il problema nasce quando le generazioni successive non si rendono conto di quella che è la realtà delle cose e non si vogliono convincere che alla gente questa musica non piace. Per me il jazz è un po’ come la musica dodecafonica nata a Vienna nel primo 900 e in realtà anche di tutta la musica "colta" contemporanea; li considero semplicemente malriuscite evoluzioni estreme dei loro antenati. Qui non voglio criticare le qualità musicali; si tratta davvero di opere ragionate che hanno un loro senso, e comunque non sono così competente per valutarne tutte le regole proprie. Quello che mi pare evidente è che sono generi che sono nati fuori dal loro tempo (immagino che il loro tempo non possa che essere il futuro); mi sorprendono le reazioni degli addetti ai lavori e degli appassionati che non si riescono a mettere in testa questa cosa.
Sempre dal libro di Polillo, ricordo con piacere la parte in cui parla dell'avversione di Louis Armstrong per il bebop. Diceva che i nuovi musicisti suonavano note 'estranee' perché non erano in grado di suonare quelle giuste (praticamente sosteneva che suonassero a caso). Non penso fosse vero allora anche solo per alcuni di essi, ma se oggi si considerano i musicisti che sanno suonare, e che tecnicamente non discuto, si capirà che questi spesso obbediscono alla legge delle scale. Sanno quali sono le scale giuste (anche se poi si ostinano a dire che non ci sono note giuste e sbagliate, ma di questo parlerò dopo) e cercano di suonare 16 milioni di sedicesimi. Io dopo 16 sedicesimi mi sono già perso. Non sempre è buono suonare tante note, anzi spesso la musicalità e la piacevolezza di un motivo la valutiamo indipendentemente dalla velocità e dalle note in sé e tanto meno dal numero di note. È piuttosto una impressione complessiva e sommaria la prima che colpisce e l’ultima che rimane.*
I jazzisti devono vedere scale dappertutto, hanno una certa perversione per le scale. Per loro la musica è fatta di scale. Non pensano alle scale come ad una (seppur limitata) delle possibili formalizzazioni del pensiero musicale, ma come la fonte da cui tutto scaturisce.
Anche laddove vi sono spiragli di lucidità e si conviene che tutte le note si possono utilizzare (dipende come!), c'è chi dà a questa idea il nome di scala cromatica, quando chiaramente non è la denominazione appropriata e non è nemmeno detto che cromatismo lo sia. Tra suonare tutte le note e utilizzare la scala cromatica c’è una bella differenza...Nei corali Bach utilizza tutte le note, ma lo fa inserendole come note estranee all’armonia, quindi non è corretto sostenere che stia utilizzando la scala cromatica e infatti a nessuno è mai passato nemmeno per l’anticamera del cervello di dire una cosa del genere. Le stesse note estranee possono vedersi in tutti i generi musicali, senza bisogno di ricorrere ad architetture teoriche complicate come le scale dei jazzisti. Poi c’è da dire un’altra cosa importante: usare le note di una scala non significa usare la scala. Anche qui Bach è maestro nell’utilizzo delle scale melodiche (maggiori e minori) e si può dire che utilizza una scala quando effettivamente ne utilizza un frammento. Se invece parliamo di una triade beh... questa potrebbe tranquillamente appartenere ad una decina di scale diverse, ammesso che sia estrapolata dal contesto armonico (nel contesto musicale, la scala di appartenenza è solitamente quasi determinata pur restando aperta la strada delle ambiguità).

Le precedenti righe sono solamente considerazioni propedeutiche a una riflessione da fare su un altro tema: la convinzione dei jazzisti che la loro musica non si possa insegnare con fare accademico e che non sia e non debba essere "musica da museo" (Bollani). Anche qui è sorprendente come certe persone, apparentemente e forse anche per davvero intelligenti, si lascino ingannare così facilmente da osservazioni banali. Tutta la musica evidentemente nasce all'atto pratico come una manifestazione artistica, in principio non gode di nessuna connotazione accademica né di formalizzazioni rigorose. La differenza principale tra la musica classica e il jazz in questo caso è semplicemente l'età. Il jazz, nel 2019, ha meno di 150 anni, mentre quando parliamo di "musica classica" (e mi si permettano molte virgolette perché musica classica è un’espressione brutale che non vuole dire nulla ma che utilizzo perché si capisce, quindi forse qualcosa vuole dire) possiamo tranquillamente considerare 200 anni di più rispetto al jazz.
Una materia il cui insegnamento si possa considerare in fase embrionale o al massimo neonata presenterà certo dei problemi. Tuttavia questi problemi non si possono imputare a nessuno se non al normale corso degli eventi, quindi è giusto che la situazione attuale sia così com’è. Si tratta solo di capire chi coscientemente vuole fare da cavia e chi invece non è interessato, sia dal lato dell’insegnamento che da quello dell’apprendimento. Tutto ciò resta una mia opinione; le visioni sono molteplici e spesso errate quando si dà una descrizione storica di un tempo contemporaneo (basta fare l’esempio di Massimo Mila che nel libro Breve storia della musica fa strafalcioni su strafalcioni quando arriva a parlare del 900, citando opere che, a meno di 100 anni di distanza, vengono ricordate come di scarso valore sociale e la storia musicale del XX secolo ha avuto tutto un altro carattere rispetto a quello descritto da Mila).
Dire che a lezione non si impara tutto è un’ovvietà, chiaramente non vogliamo metterci a discutere su questo punto. Il punto è che non deve essere un vanto. L’obiettivo dovrebbe essere quello di imparare il massimo a lezione, considerando che molti studenti (i ragazzotti del Guru della batteria) non dedicano tanto altro tempo alla musica. Limitandosi al materiale acquisito durante le lezioni di musica, non si imparerà mai bene la musica né a suonare lo strumento, si dovrebbe però acquisire almeno delle competenze sufficienti. Il programma classico (e qui mi riferisco a un tradizionale percorso di pianoforte) riesce a dare una formazione più che sufficiente per due motivi essenzialmente. Il primo è quello che dicevo prima e cioè che si tratta di un metodo storicamente consolidato che ha avuto tempo per fare emergere i suoi difetti e correggerli. In secondo luogo trae paradossalmente vantaggio dal fatto di insegnare un genere (o meglio un insieme di generi) meno conosciuto e più lontano da noi. Perciò nella vita reale possono esserci un certo numero di cose da imparare relativamente al jazz, ma ve ne saranno molte di meno legate alle musiche del XVIII e XIX secolo. Così, il rapporto tra nozioni apprese a lezione e nozioni extra lezione risulta più vantaggioso perché è difficile che nella comune vita si possano cogliere tante nozioni legate alla musica classica visto che questo è un argomento ancor più raro del jazz.

Qual è il metodo giusto per studiare la musica?
Il metodo giusto per studiare ha almeno una modalità che resta valida per ogni materia: studiare appassionatamente. In mia opinione, solo in un secondo momento entrano in gioco l’organizzazione e il tempo dedicato. Visto che lo studente è tale proprio perché non sa le cose, non si deve pretendere né pensare che faccia bene; se esiste un modo giusto per studiare, dovrebbe trovare applicazione solo in alcuni casi eventuali e difficilmente sarà la regola.
Più interessante è valutare qual è il modo giusto per insegnare.
Se ve ne fosse soltanto uno giusto, potremmo dire che chi lo adotta fa bene mentre tutti gli altri insegnanti sbagliano e ci troveremmo così, visto che ognuno sembra fare il cazzo che vuole, di fronte a orde di istruttori incapaci; alternativa non impossibile ma improbabile in mia opinione. Posto che un unico metodo giusto probabilmente non esiste e comunque non uscirà dalla mia testa, la migliore alternativa che posso proporre è quella di un metodo personalizzato e individualizzato al variare dello studente. Qui sì che siamo purtroppo di fronte agli istruttori incapaci di cui sopra...
Al di là dei contenuti di un corso (complessità tecnica del materiale sottoposto, suonare un brano piuttosto che un altro) che evidentemente non possono essere e non saranno gli stessi per tutti, vi è il modo di affrontarli. Si potrebbe snocciolare una serie infinita di idee, fra cui l’interpretazione di un brano. Secondo me l'interpretazione musicale è un fattore ancora male gestito dalla maggior parte degli insegnanti. La cosa più comune è che dicano come si suona (rallenta, accelera, forte, piano!, prepara, profondo...) e se non fai come dicono sbagli. Benché sia molto verosimile che lo studente sbagli in prima battuta, l'obiettivo dovrebbe essere quello di fare capire cosa è una interpretazione e di ottenerne una originale e personale da ognuno. Una volta chiarita tale visione, si può allinearvisi oppure no discutendola. Fino a che ci troveremo intorno insegnanti di musica che spiegano come si suona un brano secondo il loro vangelo, faremo poca strada. Il fatto che siano in errore si può affermare senza timore nel momento in cui qualcun altro sostiene una tesi diversa. Come già argomentato prima: se le opinioni sono discordanti ed entrambe non discutibili, almeno uno dei due sbaglia.
L’interpretazione del singolo dovrebbe fare risaltare l’inclinazione naturale dell’individuo (e dei popoli in generale) che è in fondo influenzata dalle tradizioni e dal contesto sociale e quindi poco differenziata in tanti casi comuni. Mi sento molto più vicino al melodramma (e alla canzone che dall’aria deriva) che non al blues afro americano o alla musica strumentale tedesca (sia essa da camera o sinfonica).

Visto che qui sembra farsi notte, forse è meglio tirare le somme. Direi che il jazz se l’è cavata fin troppo bene, dato che la critica si è aperta nei confronti di una gamma ben più ampia di soggetti. Io magari sono un po’ rude, ma voi non chiudetevi nel vostro guscio. Grazie.

Circa l'analogia con l'elettronica non vorrete davvero che perda tempo.

*Devo approfondire questo punto in un articolo futuro