Visualizzazione post con etichetta musica. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta musica. Mostra tutti i post

20 aprile 2021

Carl Czerny, frustrante op. 740

A tutto quello che segue premetterei che la tecnica, quando si studia uno strumento musicale, è imprescindibile e va esercitata. Altrimenti non si sta studiando quello strumento. In effetti cos'è la tecnica? Altro non è che la capacità di fare ciò che si vuole con lo strumento. Di averlo sotto controllo. È la capacità di saper fare con il proprio corpo i movimenti e i gesti necessari per utilizzare lo strumento.

L'aspetto tecnico va di pari passo con quello legato ai 'linguaggi', creando a volte confusione anche in personaggi apparentemente (e forse per davvero) preparati. Si tratta di due facce della stessa medaglia (la medaglia sarebbe il saper suonare lo strumento), ma sono pur sempre due cose ben distinte. Quindi facendo un discorso estremo si potrebbe trovare chi sa fare tutto con lo strumento (tecnicamente) ma non lo può realizzare perché non ha assimilato un certo linguaggio, e quindi di fatto non sa cosa dire, e d'altro canto chi ha interiormente acquisito il linguaggio musicale ma non è in grado con il corpo di trasportare sull'oggetto le idee, resta inerme come il primo.

Ora, sul primo caso c’è da dire che raramente, anzi mi verrebbe da dire mai, si sono visti musicisti equipaggiati di tecnica strumentale disarmante ma incapaci di realizzare una qualsivoglia musica. Del resto per poter acquisire questa tecnica di cui parliamo, un po' bisognerà aver suonato, quindi almeno gli esercizi si sarà in grado di effettuarli. Si può affermare con certezza invece che ci siano tanti suonatori bravissimi che poi si mostrano carenti su alcuni determinati generi e stili musicali che evidentemente non hanno compreso a fondo, pur riuscendo in molte situazioni ad imitarli in maniera più che accettabile.

Prima ero una sorta di radar, cioè cercavo sempre di capire la musica per poi suonarla bene... capirla? Ma la devi sentire la musica! Ti giuro che per tanti anni io ho filtrato attraverso il cervello le cose perché era l’unico modo “sicuro” di farle bene. (Michele Luppi)

La tecnica dello strumento è una e basta. Chiaramente se si nota che in certi ambiti vengono utilizzate prevalentemente particolari tecniche e ne vengono tralasciate altre, si potrebbe essere portati a credere che vi siano più tecniche diverse, ma è solo un accorgimento adottato in fase di catalogazione e di suddivisione dei vari 'reparti'.
Ci sono vari livelli di difficoltà tecniche, che possono essere affrontati o meno (e in modi diversi) a seconda di quello che si vuole fare. Ad esempio si potrebbe dire che Paolo Conte e Donald Fagen suonano bene, pur con tecnica scarsa, e se ne farebbero ben poco di tecnicismi particolari e funambolici per i generi che suonano. Certo, ho citato due autori di canzoni e non due pianisti, ma l'argomento resta valido: hanno tecnica sufficiente per ciò che debbono eseguire. Aggiungo anche che sono due dei più stimati da parte mia, onde evitare che si pensi che io con la frase precedente volessi screditare per spasso due monumenti della musica del '900.
Si capisce fin da ora (per i nomi che ho richiamato) che si parlerà di tecnica del pianoforte e non di uno strumento qualsiasi. Il pianoforte è lo strumento che conosco meglio tra i tanti esistenti. Gli approcci allo studio di questa tecnica sono svariati, non li conosco tutti ed il tema è senz'altro alla portata degli insegnanti di pianoforte (perché è il loro lavoro quindi io umilmente do per scontato che sappiano quello che fanno, visto che questa supposizione in tal frangente mi fa comodo per poter accusare delle persone di imperizia), mentre non mi ascrivo alcuna competenza e tanto meno delle qualifiche, ma solo il diritto di mettere per iscritto le mie idee. Comunque esaminerò due atteggiamenti verso lo studio del pianoforte.
Il primo consta nell’applicarsi su esercizi ripetitivi e “di base” (diciamo in stile Hanon per capirci o per fare capire a chi ha suonato il pianoforte con piacere e continuità per un periodo non troppo risicato. Gli altri mi aspetto che abbiano abbandonato la lettura già prima di arrivare qui) ed è sicuramente noioso per molti. In verità, non ho altro da dire, incluso un eventuale mio sbilanciarmi sullo stimare buona o no la redditività di un metodo del genere. Di manuali al livello di Hanon ve ne sono a miriadi io credo; ho l'impressione che siano tutti inutilizzabili senza un insegnante e in ogni caso senza il supporto e l’affetto di una guida più esperta. Di fatto, ogni pianista incontrerà le proprie personali difficoltà durante il percorso e uno dei compiti del buon insegnante dovrebbe essere anche quello di curare i problemi più evidenti selezionando, dall'Hanon del caso, la pratica più idonea per tentare di avviare una manovra correttiva. Ma suonare un manuale tecnico dall'inizio alla fine mi pare una cosa folle oltre che stancante ed inutile. Probabilmente questi libri si addicono a chi è già alle prese con altri studi tecnici e, notando l'emergere di specifiche criticità, desidera curarle con un intervento mirato.
Il secondo e ultimo metodo che posso enumerare ha un nome e un cognome ben precisi: Carl Czerny.
E qui viene il bello.
Ora, Czerny è stato allievo di Beethoven (le cui sonate per pianoforte verranno ricordate in futuro come uno dei più alti picchi raggiunti dall’umanità nell'800 insieme alle equazioni di Maxwell) quindi l'opinione che dovrà emergere di lui non potrà che essere positiva e il suo operato, molto ossequiosamente, non si discute. Ma non deve neanche passare per l'anticamera del cervello di poterlo fare. Detto questo, i difetti del suo metodo legati a carenze di tecnica sono dovuti al fatto che esso è risalente a 200 anni fa e in generale vale la regola che nuovi linguaggi danno spazio alla nascita di nuove tecniche. Quindi l'odierna tecnica del pianoforte (che comprende anche la capacità di suonare il blues e tutto ciò che è stato inventato dopo) non è la stessa diffusa nell'800 a Vienna. Certo mi si potrebbe obiettare che più in alto ho scritto chiaramente che la tecnica dello strumento è una. Io però non sono un musicista, né un musicologo, né uno scrittore e tutte queste lettere le scrivo nel corso degli anni talvolta perdendo la linea dell’orizzonte di ciò che faccio.
Sintetizzando, diciamo che la tecnica è una sola e si amplia grazie ai nuovi generi (si amplia grazie all’aumentare del numero dei linguaggi, i quali godono di una crescita molto più evidente), si espande quindi, ma che con Czerny si suona ancora quasi tutto. E si suona bene, aggiungo.
In mia modesta opinione credo che oggi per suonare qualcosa che non sia musica classica basti avere nelle mani la tecnica di Czerny fino al libro 636, ma seriamente, non come lo suono io... il 740 è anche troppo. Voglio dire: se il metodo Czerny è utilizzato da 200 anni avrà qualcosa di buono, no? Tutti i pianisti bravi che conosciamo oggi e che sono venuti dopo, hanno studiato lì. Se arriva qualcun altro e propone la novità, ottimo! Dovremo però attendere almeno 200 anni per poter verificare chi è durato di più tra i due. Prima sarà difficile dirlo perché solo la storia potrà darci la risposta più credibile.
La caratteristica di Czerny di essere strettamente legato alla classica tradizione viennese, apre la porta ad altre problematiche di carattere ibrido tra il tecnico e il musicale. Inevitabilmente gli studi formano l'allievo anche musicalmente, coinvolgendolo sul piano del famoso “linguaggio” di cui discutevo prima, e il linguaggio di Czerny non contempla quelle particolarità che poi rischiano di spiazzare il pianista. Intanto tutti bravi a suonare in sol e in re (maggiori), ma appena c'è un pezzo in re bemolle ti voglio vedere a leggerlo e suonarlo con la stessa disinvoltura. Ma in effetti la musica in re bemolle è molta meno che quella in re, quindi diviene conveniente studiare nelle tonalità che si utilizzano di più e lasciare in secondo piano le altre. Inoltre sono quasi tutti in 2, 3 e 4 quarti e pensati per essere suonati con un metronomo in 4. Mettere il metronomo solo sul 2 e sul 4 crea spesso delle difficoltà.
Ecco, secondo me questi problemi non sono strettamente tecnici ma dipendono dal genere musicale in cui si calano gli studi. Ci sarebbe poi da considerare che l’elevato numero di studi in poche tonalità contribuisce a rendere la musica di successiva composizione monotonale e in ogni caso spesso limitata a poche tonalità, quindi si crea un piccolo circolo da cui sembra difficile uscire.
Ma allora tecnica e linguaggio sono collegati? Certo che lo sono! Inevitabilmente impari sempre entrambe le cose ma in misure diverse; in questo caso ti sbilanci sul classico, ma come detto prima l'alternativa per evitare del tutto ogni genere è fare cose noiose (e anche qui non sono sicuro che si sia esuli da condizionamenti sul linguaggio).
Il punto critico quando si parla di Czerny emerge quando si arriva a parlare dell’op. 740. Intanto bisognerebbe capire cosa significa op., cioè se significa opera oppure opuscolo. Questo non me l’ha mai detto nessuno, ma non è nemmeno tanto significativo.
L’op. 740 è, per un amatore, a dir poco frustrante. Velocità assurde per musiche monotone che si impastano nel cervello.

Per mettere al posto giusto le note, io devo battermi il tempo coi piedi e con la testa, ma addio disinvoltura, addio serenità, addio musica. La musica che proviene da un organismo equilibrato è lei stessa il tempo ch’essa crea ed esaurisce. Quando la farò così sarò guarito. (Italo Svevo)

Io credo che oltre ad una difficoltà tecnica sulle capacità delle dita (che prima o poi si manifesta e forse a tratti potrebbe essere già risolta ed esaudita) ci sia da prendere in considerazione la pesantezza di certe musiche che devono affrontarsi, perché tutti quei sedicesimi a 120 bpm sono tante note… tantissime! Si rischia di non riuscire più a dare un significato alla musica e tanto meno risulta possibile pensare alla stessa mentre la si suona. Bisogna decidere se sentire le note o sentire le frasi, quando si suona veloce.

Back in bebop, everybody used to play real fast. But I didn't ever like playing a bunch of scales and shit. I always tried to play the most important notes in the chord, to break it up. I used to hear all them musicians playing all them scales and notes and never nothing you could remember. (Miles Davis)

Miles Davis non riusciva a suonare veloce perché doveva sentire tutte le note, almeno così diceva, una per una. Pensare quando si suona è un argomento spinoso, che non si tratterà qui, ma vorrei dire che è molto difficile pensare a tanti sedicesimi velocissimi quando si suona, non resta più il tempo di dare un senso a tutte queste note.
Così mi soffermo sulla velocità dei brani di Czerny la quale mi porterà poi a fare un'altra considerazione. Per suonare a certe velocità, a parte disporre di uno strumento adeguato, è anche necessario esercitare tante volte. Qui stiamo solo parlando di acquisire con il corpo umano una capacità meccanica di fare qualcosa, siamo ben lontani dal senso della musica. Per una persona che non è un professionista, non è un musicista insomma, la cosa diventa presto alienante. Tanto tempo, banalmente, molti non lo hanno da dedicare, per le ragioni più svariate. Ci si potrebbe allora chiedere: è meglio fare poco bene o fare tanto male? Eh sì, perché se per fare bene uno studio ci si deve rimanere tanto tempo sopra, conseguentemente se il tempo è risicato si suoneranno pochi studi. E allora si perde da un’altra parte inevitabilmente. Fare per un anno un singolo studio che senso ha? Forse a volte sarebbe opportuno e conveniente ritornare indietro a materiale tecnicamente più semplice? Riprendere brani più facili e farne di più per ritrovare anche un po’ di soddisfazione. L’importante, probabilmente, è darsi degli obiettivi e avere chiaro dove si vuole arrivare.
Non avrei mai voluto darmi degli obiettivi in termini musicali; a me la musica piace, è per questo che la pratico. Mettere delle scadenze e introdurre obiettivi sarebbe limitante, anche se produrrebbe risultati tangibili (beh che sarebbero tangibili ho dei dubbi...) e migliori. Ma se un giorno non ho voglia di esercitarmi su uno studio di Czerny, io non posso obbligarmi a farlo perché tra un mese dovrò suonarlo a 160 bpm, non esiste proprio. Il pianoforte potrebbe non avere la priorità, io non sono un professionista dello strumento e mai lo sarò. Io rivendico il diritto di fare le cose a cazzo di cane, perché fare le cose professionalmente è il sintomo di un malessere generale e diffuso nella nostra società dove essere professionali e specializzati è più importante che essere persone virtuose e sentimentali. Si dovrebbe puntare a essere persone migliori integralmente, il che non vuol dire per forza fare una cosa molto bene e in modo professionale e magari avere carenze gravi in altri ambiti della vita.

Diversi metodi di insegnamento dello strumento vanno di pari passo con diversi generi musicali. Non ritornerò sul tema del jazz già trattato in un altro articolo in precedenza (anche perché ormai il tempo stringe), riporto solo una considerazione presa da un forum e di cui non ricordo l’autore.

Fai un anno di jazz e poi torna a fare il classico.
Ti farebbe capire, da una parte che probabilmente non sei ancora pronto ma, da un'altra, inizieresti a seminare nella direzione che poi potresti riprendere più avanti, ché la semina nel frattempo inizierebbe a germogliare
Cerco di spiegare meglio il mio precedente intervento. Ci sono persone che nascono e sanno quello che vogliono fare e soprattutto quello per cui sono portati e sono in grado di fare. Nel nostro campo (pianistico, NdR), quelli che hanno dentro e sanno ritrovare fantasia, creatività, memoria (!) per cui diventa facile cimentarsi senza ausilio di canovacci, spartiti, ecc. e altri che invece ne hanno bisogno e addirittura non gliene frega niente di essere "schiavi" di uno spartito anzi lo preferiscono. A queste diverse persone vanno bene maestri e scuole che in qualche maniera siano consoni a quello che loro vogliono e sono, rispettivamente diversi in un caso e nell'altro. Poi ci sono persone che non appartengono nè all'una nell'altra delle categorie di cui detto. Ecco secondo me costoro, devono avere il coraggio di seguire strade proprie loro, tipo il percorso sghembo che ho consigliato, diventando anche progettisti dei loro percorsi e operando scelte difficili che neppure sono comprese dai più.

In calce, ancora delle riflessioni prese in prestito da internet sull’utilità dell’op. 740. Ho sinceramente il terrore che la conversazione che riporto scomparirà prima o poi dalla rete. Io la copio tale e quale perché è esilarante, oltre che trattarsi di un buon esempio di come si svolgevano le bizzarre conversazioni da forum online. Poi, soprattutto, parla di Czerny e della sua utilità per poter in prospettiva affrontare gli studi di Chopin.

Onaocn: Il discorso è sempre lo stesso, da un parte la cultura musicale implica la lettura di molto materiale, dall'altra vi è la necessità di arrivare a un compromesso accettabile tra reali possibilità del pianista.
Visto che si parla di Clementi, ebbene come per Czerny se non si hanno gli studi sulle 5 dita e quello sugli arpeggi almeno a 140 di metronomo a quartina senza alcun problema, gli studi di Chopin non sono eseguibili.
Si è anche accennato all'ampiezza della mano e alle peculiarità personali del pianista, tutto vero eccezioni comprese ma, rimane che chi non ha superato i primi tre studi di Czerny op. 740 al metronomo sopra indicato, poiché è necessario andare per gradi (prima ancora scale e arpeggi allo stesso tempo), difficilmente potrà conseguire risultati degni di nota su studi come quelli dell'autore polacco, assumendo rischi anche seri.
E qui tratto brevemente il fattore pianistico insito nello sviluppo tecnico del giovane pianista, detto che le potenzialità naturali sono la priorità, non è da escludere la conoscenza diretta del lavoro pianistico sia come approfondimento della nostra struttura fisiologica atta a trarre le migliori performance dal compromesso esecutore/brano musicale sia di ordine strutturale/compositivo e stilistico.
Nel primo caso si potranno dare particolare rilievo all'"attacco del tasto" e a tutte le sue innumerevoli varietà di affondo e velocità di esecuzione nel rispetto della propria fisiologia e assoluta elasticità, nel secondo l'analisi del brano, rilevante ai fini della prassi esecutiva, dello stile e della memorizzazione.

RaffaeleMJ_91: Non si può parlare in termini certi... io non ho affrontato l'op.740 di Czerny ma suono regolarmente gli studi Op.10 no.12, Op.25 no.1 e Op.25 no.12 e sto per iniziare l'Op.25 no.9.
Penso che l'unico discorso valido sia quello riguardante le possibilità concrete del pianista, a prescindere da repertorio e altro... credo che gli studi di Chopin in cui effettivamente il bagaglio tecnico faccia la differenza (ovviamente non intendo dire che i principianti possano suonare tutti gli altri, ma comunque mi riferisco ad un livello medio/alto) siano i nn.1,2,4,8,11 dell'Op.10 e i nn.4,6,10,11 dell'Op.25. Questa è la mia opinione.
Ciao a tutti!

Onaocn: Ci vuole dire con questo che lei è uno dei pochi super fortunati che non ha passato pianistico su altri studi, avendo subito studiato gli studi del musicista polacco? Buon per lei.
Giusto per capire meglio la sua caratura pianistica, potrebbe gentilmente dirci a che metronomo esegue gli studi op 10 e 25 n 12?
Cordialità.

RaffaeleMJ_91: Grazie per il "lei" ma se ne può anche fare a meno. Grazie anche per il tono sarcastico, non fa altro che confermare il mio pensiero: con i preconcetti non si va da nessuna parte, soprattutto in musica. Innanzitutto lei dice che io non ho passato tempo su altri studi: mai detta una cosa del genere, lei la vede forse scritta? Ho passato ore e ore sull'Op.299 di Czerny ad esempio ma ho evitato l'Op.740 (non per presunzione nè altro, semplicemente passati). Dopo questo chiarimento necessario passiamo a Chopin: eseguo l'Op.25 No.1 al metronomo scritto, cioè intorno al 100 la semiminima. L'Op.10 no.12 sono ad un buon 145 la semiminima e il no.12 lo faccio a poco meno di 70 la minima ma è anche relativamente poco che l'ho studiato. Può anche rimanere nella convinzione per cui se non si studia l'Op.740 non si può matematicamente studiare Chopin, faccia come vuole! Applicarsi nella tecnica globale del pianoforte, cioè sulla spinta dal basso, sul polso vuoto, sul braccio molle, sul peso e sullo scappamento, sulla tecnica stretta di dita, serve molto più che studiare male gli studi. Conosco gente che suona Czerny a velocità atomiche rischiando di sfondarsi i tendini ogni 2 secondi e producendo un suono freddo e inespressivo. Liberiamoci dei preconcetti! Almeno nell'arte!
Un saluto

Onaocn: Evidentemente o ha letto male e male interpretato i miei precedenti o forse mi sono spiegato male, nessuna intenzione di recarle alcun sarcasmo, poi.
Ho parlato dell'op. 740 di Czerny perché nella prassi consolidata di almeno un secolo viene ritenuto un bagaglio indispensabile. Per intenderci, questo non vuol dire che si possa arrivare agli studi di Chopin per altre vie.
Nonostante ciò, in genere si pensa che chi non ha realizzato i primi tre studi di tale opera almeno a 140 la quartina di metronomo, non possa accedere alla professione pianistica e chi non li esegua almeno a 160 alla quartina ha preclusi i quartieri alti di detta professione.
Dal momento che detti studi sono in programma per il compimento inferiore, questa è un’altra ragione pratica per cui vengono tenuti particolarmente in considerazione.
Mi permetta: la parola spinta non esiste in nessuno metodo atto a sviluppare una supposta tecnica pianistica. Non esiste né dal basso né dall'alto e anche se qualche pianista eccezionalmente dotato lo fa raramente, per i più sarebbe assai dannoso. Peso e spinta sono antitetici, contrari forse denotano una certa confusione in atto nel mondo pianistico, certo non professionale.
Esegue gli studi mediamente intorno a 140 alla quartina, poco per eseguirli in pubblico peggio ai concorsi ma, sempre cosa degna e apprezzabile. Il fatto che altri abbiano mezzi superiori e li eseguano a tempi più altri così come dovrebbe essere 150, 160, 176, non vuol dire che si romperanno l'osso del collo ma, solo che hanno doti eccezionali, altrimenti Pollini dovrebbe essere già defunto da tempo...
Cordialità.

RaffaeleMJ_91: "uno dei pochi super fortunati che non ha passato pianistico su altri studi". Forse prima di scrivere bisogna comprendere il significato di quello che si dice. Poi: non è da concerto o da concorso eseguire uno studio al metronomo scritto sulla pagina pentagrammata (l'Op.25 no.1 lo eseguo al suo tempo). Benissimo lei deve essere veramente un cultore del pianoforte. Per quanto riguarda l'op.10 no.12 e l'Op.25 no.12 ho precisato di averli da molto poco in repertorio e che li sto ancora studiando quindi posso anche darle ragione che non vincerei il Concorso Chopin di Varsavia con quelli ma la precisazione è alquanto inutile perchè da per scontato che oltre un certo limite sia impossibile arrivare. Ancora lei dice cosa sbagliata sulla spinta: la spinta esiste soprattutto nello studio degli accordi e della progressione di accordi senza staccare la mano dalla tastiera ad esempio. Se il nome scientifico non è "spinta dal basso" mi scuso ma il fenomeno esiste e si usa anche se pochi lo insegnano. Io ho la fortuna di avere un insegnante che lo insegna.

RaffaeleMJ_91: Ad ogni modo è meglio chiudere la discussione: non ho intenzione di convincerla che il dogma assoluto in musica non esiste così come lei non mi convincerà del contrario. I fatti dicono che si possono studiare gli studi di Chopin anche senza l'Op.740 di Czerny: è libero di pensare che io sia un cialtrone non mi interessa. All'autore del post consiglio vivamente di studiare il no.12 prima del no.1.
Un saluto

Poi in realtà andando avanti migliorava… oltretutto l’intervento seguente del povero moderatore costituisce parte della mia bibliografia per questo brano che ho scritto, poiché citava brani tratti dal libro di Czerny 'Lettere ad una giovane fanciulla sull'arte di suonare il pianoforte'. Era su pianoforum.it e il titolo della discussione era un generico 'Chopin studio 12 op.10'. Chi è interessato se lo cercherà, io per salvaguardarmi l’ho scaricata anni fa per farmi una risata quando mi va di rileggerlo. Sono due pagine.

Concludo ritenendo di essermi dilungato ben oltre le aspettative iniziali e confidando che ogni sedicente insegnante di musica, e particolarmente di pianoforte, si sia posto i sopra riportati interrogativi almeno una volta nella vita.

02 aprile 2019

I jazzisti e le scale

Affermare d'impatto che i jazzisti sono la rovina della musica moderna così come l'elettronica è il male del nostro tempo, senza dare spiegazioni aggiuntive, significherebbe certamente fare economia del proprio tempo prezioso evitando di sprecarne per argomentare futilmente una affermazione vera. Tuttavia la storia dell'umanità, le circostanze e le buone maniere impongono a questo punto una digressione per chiarire. Si sospenda quindi momentaneamente il giudizio sulla asserzione fatta in principio, e mi si conceda di descrivere, seppur rimanendo sul piano della vaghezza, come sono arrivato alle suddette conclusioni.
Se dovessi davvero raccontare di come mi sono avvicinato al jazz, dovrei prima ricordare tutta la mia vita spiegando come ho iniziato ad ascoltare la musica. Questo sì che andrebbe oltre ogni limite. Basta sapere che ho avuto i primi contatti con questo genere proprio tramite l'ascolto. Non vi ho mai capito molto, devo ammettere.
Per chiarire le cose storicamente, è invece importante premettere che il jazz nasce da una costola del blues. Come il rock, anche se questo è arrivato dopo temporalmente. Insomma si può dire che sono entrambi figli della stessa madre. Degno di nota è pure il fatto che quando si parla di jazz oggi, generalmente ci si riferisce a musiche che a loro volta discendono dal bebop, che sarebbe il jazz diffuso alla fine degli anni 40 del XX secolo, circa. Prima di allora c'era un jazz diverso e bello. Swing.

Merita un breve excursus (di cui poi sarà chiara la necessità) la visione del mondo musicale, oltre che l’opinione sul jazz, data dal Guru della batteria (i suoi video sono ancora disponibili su youtube nel momento in cui scrivo). La teoria del Guru parte da alcuni concetti fondamentali; il primo è il concetto di gente: la gente è costituita dalle persone che non hanno nozioni musicali ma che hanno disponibilità economica e possono pagare i dischi e i biglietti dei concerti. Il secondo concetto è quello di 'ragazzotto'. I ragazzotti sono sempre gente, ma acquisiscono conoscenze musicali (per esempio andando a lezione) e in rari casi divengono musicisti. Il termine non ha un legame con l'età ma con lo stato d'animo della persona e con l'approccio che questa ha di fronte alla musica. Infine vi è il concetto di musica (e quindi di musicista) che viene per ultimo non nel senso inglese di "last but not least" ma proprio perché la musica è all’ultimo posto e non interessa a nessuno. Dopo tutto ciò c'è il Guru (colui che parla nei video; in particolare si riferisce alla batteria ma il concetto può estendersi ad altri strumenti o addirittura alla musica in generale) che si occupa di fare il Virgilio dei musicisti che, presi da tutti i loro impegni, a volte perdono un pochino il contatto con la realtà (musicale e non solo). Già davanti a questa sintesi potremmo gridare al capolavoro.
La formalizzazione teorica della realtà viene quindi estesa ma io non entro ora nel dettaglio, mi muovo direttamente ad un commento sull'opinione del Guru relativa ai jazzisti.
L'idea è che i jazzisti, benché ne abbiano l'evidenza, si ostinano a fare una cosa che alla gente non piace e questo li rende deprecabili. Molto stringatamente il riassunto che credo di poter fare è questo, ma il video merita senz’altro di essere seguito con attenzione dal principio alla fine. Tutto questo ricordo serve per dire che mi allineo alla versione secondo cui il jazz ognuno deve farlo a casa sua. Se non piace alla gente è inutile che si voglia continuare a proporlo lamentandosi e dispiacendosi poi del fatto che di jazz non si campa. Fine della polemica tra me e il sottoscritto.

Nel suo libro sul jazz, Arrigo Polillo dice che il bebop ha condannato il jazz ad una impopolarità da cui non è più riuscito a fuggire. Magari il concetto non è formulato proprio così ma è molto chiaro, e come gli si può dare torto...i fatti confermato tutto. I primi musicisti bebop non facevano altro che vivere all'insegna di una rivoluzione che poi non ha avuto gli esiti sperati. Ecco, fin qui non c'è nessun problema. Il problema nasce quando le generazioni successive non si rendono conto di quella che è la realtà delle cose e non si vogliono convincere che alla gente questa musica non piace. Per me il jazz è un po’ come la musica dodecafonica nata a Vienna nel primo 900 e in realtà anche di tutta la musica "colta" contemporanea; li considero semplicemente malriuscite evoluzioni estreme dei loro antenati. Qui non voglio criticare le qualità musicali; si tratta davvero di opere ragionate che hanno un loro senso, e comunque non sono così competente per valutarne tutte le regole proprie. Quello che mi pare evidente è che sono generi che sono nati fuori dal loro tempo (immagino che il loro tempo non possa che essere il futuro); mi sorprendono le reazioni degli addetti ai lavori e degli appassionati che non si riescono a mettere in testa questa cosa.
Sempre dal libro di Polillo, ricordo con piacere la parte in cui parla dell'avversione di Louis Armstrong per il bebop. Diceva che i nuovi musicisti suonavano note 'estranee' perché non erano in grado di suonare quelle giuste (praticamente sosteneva che suonassero a caso). Non penso fosse vero allora anche solo per alcuni di essi, ma se oggi si considerano i musicisti che sanno suonare, e che tecnicamente non discuto, si capirà che questi spesso obbediscono alla legge delle scale. Sanno quali sono le scale giuste (anche se poi si ostinano a dire che non ci sono note giuste e sbagliate, ma di questo parlerò dopo) e cercano di suonare 16 milioni di sedicesimi. Io dopo 16 sedicesimi mi sono già perso. Non sempre è buono suonare tante note, anzi spesso la musicalità e la piacevolezza di un motivo la valutiamo indipendentemente dalla velocità e dalle note in sé e tanto meno dal numero di note. È piuttosto una impressione complessiva e sommaria la prima che colpisce e l’ultima che rimane.*
I jazzisti devono vedere scale dappertutto, hanno una certa perversione per le scale. Per loro la musica è fatta di scale. Non pensano alle scale come ad una (seppur limitata) delle possibili formalizzazioni del pensiero musicale, ma come la fonte da cui tutto scaturisce.
Anche laddove vi sono spiragli di lucidità e si conviene che tutte le note si possono utilizzare (dipende come!), c'è chi dà a questa idea il nome di scala cromatica, quando chiaramente non è la denominazione appropriata e non è nemmeno detto che cromatismo lo sia. Tra suonare tutte le note e utilizzare la scala cromatica c’è una bella differenza...Nei corali Bach utilizza tutte le note, ma lo fa inserendole come note estranee all’armonia, quindi non è corretto sostenere che stia utilizzando la scala cromatica e infatti a nessuno è mai passato nemmeno per l’anticamera del cervello di dire una cosa del genere. Le stesse note estranee possono vedersi in tutti i generi musicali, senza bisogno di ricorrere ad architetture teoriche complicate come le scale dei jazzisti. Poi c’è da dire un’altra cosa importante: usare le note di una scala non significa usare la scala. Anche qui Bach è maestro nell’utilizzo delle scale melodiche (maggiori e minori) e si può dire che utilizza una scala quando effettivamente ne utilizza un frammento. Se invece parliamo di una triade beh... questa potrebbe tranquillamente appartenere ad una decina di scale diverse, ammesso che sia estrapolata dal contesto armonico (nel contesto musicale, la scala di appartenenza è solitamente quasi determinata pur restando aperta la strada delle ambiguità).

Le precedenti righe sono solamente considerazioni propedeutiche a una riflessione da fare su un altro tema: la convinzione dei jazzisti che la loro musica non si possa insegnare con fare accademico e che non sia e non debba essere "musica da museo" (Bollani). Anche qui è sorprendente come certe persone, apparentemente e forse anche per davvero intelligenti, si lascino ingannare così facilmente da osservazioni banali. Tutta la musica evidentemente nasce all'atto pratico come una manifestazione artistica, in principio non gode di nessuna connotazione accademica né di formalizzazioni rigorose. La differenza principale tra la musica classica e il jazz in questo caso è semplicemente l'età. Il jazz, nel 2019, ha meno di 150 anni, mentre quando parliamo di "musica classica" (e mi si permettano molte virgolette perché musica classica è un’espressione brutale che non vuole dire nulla ma che utilizzo perché si capisce, quindi forse qualcosa vuole dire) possiamo tranquillamente considerare 200 anni di più rispetto al jazz.
Una materia il cui insegnamento si possa considerare in fase embrionale o al massimo neonata presenterà certo dei problemi. Tuttavia questi problemi non si possono imputare a nessuno se non al normale corso degli eventi, quindi è giusto che la situazione attuale sia così com’è. Si tratta solo di capire chi coscientemente vuole fare da cavia e chi invece non è interessato, sia dal lato dell’insegnamento che da quello dell’apprendimento. Tutto ciò resta una mia opinione; le visioni sono molteplici e spesso errate quando si dà una descrizione storica di un tempo contemporaneo (basta fare l’esempio di Massimo Mila che nel libro Breve storia della musica fa strafalcioni su strafalcioni quando arriva a parlare del 900, citando opere che, a meno di 100 anni di distanza, vengono ricordate come di scarso valore sociale e la storia musicale del XX secolo ha avuto tutto un altro carattere rispetto a quello descritto da Mila).
Dire che a lezione non si impara tutto è un’ovvietà, chiaramente non vogliamo metterci a discutere su questo punto. Il punto è che non deve essere un vanto. L’obiettivo dovrebbe essere quello di imparare il massimo a lezione, considerando che molti studenti (i ragazzotti del Guru della batteria) non dedicano tanto altro tempo alla musica. Limitandosi al materiale acquisito durante le lezioni di musica, non si imparerà mai bene la musica né a suonare lo strumento, si dovrebbe però acquisire almeno delle competenze sufficienti. Il programma classico (e qui mi riferisco a un tradizionale percorso di pianoforte) riesce a dare una formazione più che sufficiente per due motivi essenzialmente. Il primo è quello che dicevo prima e cioè che si tratta di un metodo storicamente consolidato che ha avuto tempo per fare emergere i suoi difetti e correggerli. In secondo luogo trae paradossalmente vantaggio dal fatto di insegnare un genere (o meglio un insieme di generi) meno conosciuto e più lontano da noi. Perciò nella vita reale possono esserci un certo numero di cose da imparare relativamente al jazz, ma ve ne saranno molte di meno legate alle musiche del XVIII e XIX secolo. Così, il rapporto tra nozioni apprese a lezione e nozioni extra lezione risulta più vantaggioso perché è difficile che nella comune vita si possano cogliere tante nozioni legate alla musica classica visto che questo è un argomento ancor più raro del jazz.

Qual è il metodo giusto per studiare la musica?
Il metodo giusto per studiare ha almeno una modalità che resta valida per ogni materia: studiare appassionatamente. In mia opinione, solo in un secondo momento entrano in gioco l’organizzazione e il tempo dedicato. Visto che lo studente è tale proprio perché non sa le cose, non si deve pretendere né pensare che faccia bene; se esiste un modo giusto per studiare, dovrebbe trovare applicazione solo in alcuni casi eventuali e difficilmente sarà la regola.
Più interessante è valutare qual è il modo giusto per insegnare.
Se ve ne fosse soltanto uno giusto, potremmo dire che chi lo adotta fa bene mentre tutti gli altri insegnanti sbagliano e ci troveremmo così, visto che ognuno sembra fare il cazzo che vuole, di fronte a orde di istruttori incapaci; alternativa non impossibile ma improbabile in mia opinione. Posto che un unico metodo giusto probabilmente non esiste e comunque non uscirà dalla mia testa, la migliore alternativa che posso proporre è quella di un metodo personalizzato e individualizzato al variare dello studente. Qui sì che siamo purtroppo di fronte agli istruttori incapaci di cui sopra...
Al di là dei contenuti di un corso (complessità tecnica del materiale sottoposto, suonare un brano piuttosto che un altro) che evidentemente non possono essere e non saranno gli stessi per tutti, vi è il modo di affrontarli. Si potrebbe snocciolare una serie infinita di idee, fra cui l’interpretazione di un brano. Secondo me l'interpretazione musicale è un fattore ancora male gestito dalla maggior parte degli insegnanti. La cosa più comune è che dicano come si suona (rallenta, accelera, forte, piano!, prepara, profondo...) e se non fai come dicono sbagli. Benché sia molto verosimile che lo studente sbagli in prima battuta, l'obiettivo dovrebbe essere quello di fare capire cosa è una interpretazione e di ottenerne una originale e personale da ognuno. Una volta chiarita tale visione, si può allinearvisi oppure no discutendola. Fino a che ci troveremo intorno insegnanti di musica che spiegano come si suona un brano secondo il loro vangelo, faremo poca strada. Il fatto che siano in errore si può affermare senza timore nel momento in cui qualcun altro sostiene una tesi diversa. Come già argomentato prima: se le opinioni sono discordanti ed entrambe non discutibili, almeno uno dei due sbaglia.
L’interpretazione del singolo dovrebbe fare risaltare l’inclinazione naturale dell’individuo (e dei popoli in generale) che è in fondo influenzata dalle tradizioni e dal contesto sociale e quindi poco differenziata in tanti casi comuni. Mi sento molto più vicino al melodramma (e alla canzone che dall’aria deriva) che non al blues afro americano o alla musica strumentale tedesca (sia essa da camera o sinfonica).

Visto che qui sembra farsi notte, forse è meglio tirare le somme. Direi che il jazz se l’è cavata fin troppo bene, dato che la critica si è aperta nei confronti di una gamma ben più ampia di soggetti. Io magari sono un po’ rude, ma voi non chiudetevi nel vostro guscio. Grazie.

Circa l'analogia con l'elettronica non vorrete davvero che perda tempo.

*Devo approfondire questo punto in un articolo futuro

11 gennaio 2019

Sto leggendo my family and others animals di Gerald Durrell

Morgan spiega (e suona) Beethoven, i Beatles e la musica ecclesistica

Dire che Morgan è un compositore significa spararla grossa quasi quanto dire che è un pianista. Il livello tecnico, sia pianistico che compositivo, che emerge dall'osservazione del video è indubbiamente basso se valutato con canoni classici, è evidente. Proprio perciò non occorre specificarlo con stizza, anzi così facendo si rischia di cadere nel ridicolo; che ci siano persone che mettono in discussione le capacità tecniche fa pensare piuttosto che queste non abbiano capito cosa stanno guardando, e non che siano così intelligenti come vorrebbero far credere o credono di essere.
Morgan si potrebbe al limite definire un artista, se di arte si può parlare, vista l'influenza sociale e culturale che ha avuto in un certo periodo e su un limitato gruppo di persone (e in un'area geografica ristretta, aggiungo). La figura del compositore, ma lo stesso vale per il pianista, ha più spesso una connotazione tecnica/operativa, riferendosi a chi la musica la scrive davvero con coscienza e sapendo cosa sta facendo, realizzando elementi che non possono limitarsi all'artisticità, alla originalità o, peggio, alla stranezza. La colonna sonora di un video spesso non colpisce per la particolare bellezza, ma risulta invero fondamentale e portante (da cui il nome colonna) per la riuscita complessiva del prodotto. Molte persone non danno peso alle colonne sonore perché banalmente non ne hanno una idea tecnica sufficientemente chiara e non perché non ne apprezzino il contenuto musicale. É un po' come dire che chi entra in una chiesa si sofferma ad ammirare gli affreschi dimenticando che vi sono le fondamenta senza le quali non ci sarebbero i primi.
Volendo quindi dare a Morgan la caratterizzazione dell'artista, non si dimentichi però che ha basilari capacità e nozioni tecniche sul suo strumento, che tali possono ritenersi almeno con riferimento all'epoca in cui ha vissuto e agito (e tuttora vive). L'arte nasce come applicazione di ampie capacità acquisite accademicamente, solo in una epoca più recente sono sorte manifestazioni artistiche che mettevano in secondo piano le vere competenze tecniche pregresse e prima date per scontate.
Questo continuo declino si riduce infine a realizzare la situazione attuale in cui troviamo degli individui possibilmente considerati 'artisti' (i cosiddetti influencer) solo per il fatto di avere una opinione che sposta le masse. Ammesso che veramente una opinione l'abbiano, non basta per garantire che sia stata ragionata e costruita su solide basi.
Questo forse farà voltare nella tomba Aristotele, così come Beethoven che sente Morgan...tuttavia essendo i morti morti e immobili non mi preoccuperei troppo.

***

Meravigliosa ma... è schematica! Matematica!
Spostare di un sedicesimo le mani.
Beethoven!
Io ho fatto fondamentalmente uso di clavicembalo distorto.
Ho usato...roba aleatoria... secondo me anche Beethoven sarebbe contento di questo.
Io non ho la presunzione di andare a mettere la nota estranea.
La patetica, siccome mi sembrava dei Beatles... l'importante è non cambiarne il contenuto musicale.

C'è un aspetto tecnico. Dunque, noi abbiamo importato questa innovazione dal Canada...
Tecnica?


***

Detto questo, a me la canzone di Morgan basata sulla patetica è piaciuta; non penso che sia opportuno perdersi in un giudizio più approfondito di così, avventurandosi in percorsi fatti di sottigliezze e minuzie solo volte a impressionare, tenuto conto anche del fatto che stiamo parlando di Morgan e non di Beethoven. In questo caso un giudizio superficiale allineato ai propri gusti personali è del tutto esauriente.

10 gennaio 2018

Considerazioni su Bach e Walter Piston (il libro di armonia)

Al termine del capitolo sull'armonizzazione delle melodie (non al termine del capitolo sulle note estranee all'armonia), Walter Piston propone di armonizzare alcune battute tratte da corali. Ovviamente le stesse melodie sono già state armonizzate da Bach in modo esatto. Questa affermazione richiede una spiegazione. Non è che Bach armonizzasse in modo esatto, è il nostro concetto di correttezza che si basa su quanto fatto da Bach nel primo 700. Comunque, ho trovato divertente fin da subito il modo in cui Piston sembra prendersi gioco dell'allievo con questi esercizi.
Intanto le melodie non sono complete, ma si tratta solo di alcune battute estrapolate da ciascun corale. Come dire, 'non pretendo che affronti l'intero canto, bastano 3 battute'. Perché così è, se escludiamo le battute introduttive da 1/4 e quella finale evidentemente sulla tonica con la fermata, restano tre battute da riempire. Apparentemente non molte, quindi si potrebbe pensare ad un esercizio semplice e scolastico. Per di più, quando ho svolto il compito mi sono permesso di copiare dal libro il primo accordo così da essere certo che la partenza fosse la stessa.
In secondo luogo, Piston specifica che sotto la corona dovrà sempre esserci un accordo fermo e non si devono introdurre movimenti nelle voci. Questo fatto poteva quasi darsi per scontato per quel che mi riguarda ma è stato precisato e tanto meglio.
Dice poi di utilizzare accordi in stato fondamentale o in primo rivolto. Per chi è già pratico nell'uso di secondi e terzi rivolti di accordi con la settima, potrebbe apparire una inutile limitazione e ci si sentirebbe quasi autorizzati ad ignorare la richiesta (ma si vedrà, analizzando scrupolosamente, che Bach inserisce con estrema parsimonia secondi e terzi rivolti, e pure riesce a concepire lavori vari e dinamici).
Infine, si richiede che vengano utilizzate note estranee all'armonia con un vincolo: non usare note estranee della durata inferiore alla croma.

Partendo con lo svolgimento dell'esercizio 6a del capitolo 9 mi sono trovato in difficoltà sapendo che come mi sarei mosso avrei sbagliato. Infatti, per quello che ho detto prima, la soluzione di Bach è quella giusta. Il mio obiettivo era quindi quello di avvicinarmi il più possibile all'armonizzazione migliore.
Con non piccolo sforzo, si scelgono i gradi della scala da utilizzare, si impostano gli accordi e si inseriscono le note estranee.
Si va poi ad analizzare il lavoro di Bach ed eccoci giunti al grande sberleffo di Piston. Si scopre che le note estranee all'armonia non vengono utilizzate. Questo fatto permette di avviare una riflessione: è molto più importante la scelta dei gradi della scala che l'uso di note estranee. Come già sapevo avrei sbagliato e così è stato. Non ho però sbagliato inserendo note di troppo o mancandone alcune, bensì utilizzando i gradi meno appropriati. Questa è una grande lezione su come sfruttare al meglio i classici T, SD (II o IV che sia), D (V o VII) e i loro primi rivolti per dare varietà all'insieme. Il tutto senza note estranee e con maestria. Vi è molta differenza tra l'utilizzo di IV o di II in 6, oppure tra I e I in 6 o addirittura tra I e VI. Si guarda con attenzione ai cambi di posizione delle voci fatti su una armonia che si mantiene. Bach è in grado di tirare fuori una musica completa, che non manca di nulla, servendosi solo del minimo. Non si avvertono mancanze o buchi e il corale risulta piacevole all'orecchio.
Bach è così o il contrario: da un lato, può stupire mostrando quanto si possa fare con strumenti semplici e alla portata di ogni scolaro. Altre volte invece è in grado di risolvere, tramite vere e proprie magie, temi musicali apparentemente intrattabili. Oppure, semplicemente, si diverte inserendo trovate eccezionali in contesti che potevano vedersi in una maniera molto più ingenua. 

Ribadisco quanto detto in principio: non c'è nulla di assolutamente giusto nel lavoro di Bach; è il modo odierno di intendere la musica che è fondato sui suoi 371 corali (e ovviamente su tutta la restante sua produzione).
 


Vorrei soffermarmi su alcuni particolari (l'armonizzazione che propone Bach) dell'esercizio 6e di Piston. L'esercizio 6e del capitolo 9 corrisponde alle prime battute del corale Nun danke alle Gott, numero 32 nell'edizione Breitkopf.
Qui ho pensato bene di sbizzarrirmi inserendo rivolti e dominanti secondarie che mi pareva ci stessero decentemente. Scopro infine che Bach ha fatto una cosa semplicissima.
I IV I e si ferma sulla corona .
VI (per variare rispetto a I è bastata una nota che è un vero colpo di classe, non ho altre parole*) e poi V I V I V I
Uno potrebbe gridare alla monotonia vedendo il finale di tre V-I in sequenza (dove ho volutamente omesso settime e rivolti) ma se si visualizza COME sono state realizzate le cadenze si capisce la differenza che passa tra il COSA (la cadenza V-I) e il COME (l'uso di settime, rivolti, note estranee). Vengono di fatto esposti vari metodi e idee per realizzare la successione che sta alla base di tutta la musica tonale (da Bach a Taylor Swift). In più è da esaminare attentamente la battuta finale dove vengono inserite:
nota di volta
ritardo
nota sfuggita
reaching tone
in un semplice movimento armonico I-V
Il tutto è in contrasto con il resto del corale dove Bach aveva dato note svizzere solo al basso e solo per formare scale di tre note. A questo punto il corale continuerebbe, mentre lo studente di Piston si ferma qui. 
E io mi fermo insieme a Piston.


*In realtà le parole ci sono eccome, infatti la melodia di Piston proprio in quel punto è diversa rispetto a quella del corale di Bach. Questo cambia tutto ovviamente, ma me ne sono accorto troppo tardi.

20 febbraio 2008